Il mestiere di chef è stato abbastanza casuale anche se alla fine Giuseppe Misuriello non ho fatto altro che unire i puntini. Classe 1970, Stella Michelin nel 2019, è lui il cuore pulsante dell’Antica Osteria Marconi di Potenza, dove da circa due anni è tornato in pianta stabile dopo la breve ma entusiasmante esperienza alla Locanda Severino di Caggiano.
Quindi anche le strade per diventare chef sono infinite?
In effetti, il mio percorso di studi è stato completamente diverso da quello che ci si potrebbe aspettare: prima il liceo scientifico, poi l’università con il corso di laurea in chimica, per altro non terminato per svariate ragioni. Evidentemente non ero destinato a fare il chimico. Invece, nel 1997, a 27 anni mi si presentò l’opportunità di aprire con un mio carissimo amico il primo wine bar della Basilicata qui a Potenza. È rimasto aperto per 20 anni e si trovava proprio di fronte al ristorante dove lavoro adesso.
Forse un segno del destino?
Chissà. Comunque avevo uno spiccato interesse se non per il settore specifico della cucina per tutto il mondo del beverage, del food e della ricerca. Mi aveva sempre affascinato. Nel wine bar non avevamo cucina, preparavamo solo taglieri di salumi e formaggi, come si faceva all’epoca, cercando prodotti di qualità. Ma già da ragazzo volevo sempre provare una nuova birra ed avevo la curiosità di scoprire i prodotti di nicchia o ricercati fuori dalla grande distribuzione.
Organizzavo le mie vacanze sulla base dei ristoranti che volevo provare: ho sempre avuto passione per i ristoranti con cucina d’autore. Quella del wine bar è stata un’esperienza utile perché li ho potuto approfondire la mia conoscenza dei vini: oggi sono abbastanza esperto pur senza aver fatto il percorso ufficiale da sommelier; ho imparato con una discreta presenza sul campo e la guida di persone più esperte di me che mi hanno dato le dritte giuste. Poi oggi se uno vuole imparare qualcosa gli strumenti ci sono.
Com’è avvenuto poi “l’ingresso in cucina”?
È successo che grazie all’esperienza del wine bar, nel 2005 mi viene offerta l’opportunità di rilevare l’Antica Osteria Marconi che era di proprietà di un caro amico nonché chef stellato, Franco Rizzuti, che purtroppo ci ha lasciato troppo presto. All’inizio mi occupavo di quello che sapevo fare, cioè la sala, la cantina, mentre la cucina era rimasta nelle abili mani di Franco. È iniziata così, appoggiandomi ad uno chef con grande esperienza e abilità, la mia avventura nella ristorazione vera e propria. È stata un’esperienza molto formativa perché mi sono dovuto confrontare anche con altre questioni come quelle amministrative e burocratiche, i rapporti con i fornitori ecc. ma soprattutto ho ampliato la mia esperienza in sala e cantina.
E poi?
Sei-sette anni dopo, Franco decide di lasciare l’Osteria per dedicarsi ad un altro progetto e io mi trovo davanti ad un bivio. Cosa fare? Avevo paura di mettermi in mani altrui anche perché l’Osteria Marconi aveva una sua personalità consolidata e riconosciuta. Venivo da un rapporto molto affiatato perché con Franco Rizzuti eravamo anche amici e il mio timore era di affidare la gestione della cucina ad una persona sconosciuta col rischio magari di subirne i capricci o esserne in qualche modo alla mercé.
In alcuni ristoranti la figura dello chef è fondamentale, se hai ambizioni superiori e vuoi essere caratterizzato dai piatti che fai o dal lavoro sul territorio. Insomma, temevo di diventare ricattabile, mettiamola così. E quindi facendomi forza del fatto che il team del ristorante aveva scelto di restare con me, decido di prendere io in mano la cucina. All’inizio timidamente, replicando i piatti che già facevamo e apportando piano piano qualche modifica. Da lì non mi sono più fermato. Certo oltre alla curiosità e alla passione mi ha aiutato molto il fatto di avere un senso del gusto molto pronunciato e di aver acquisito le conoscenze tecniche necessarie durante gli anni di collaborazione con Franco Rizzuti.
Sono anche grato ai ragazzi che lavoravano con me, alcuni dei quali avevano avuto esperienze importanti in realtà blasonate, anche all’estero.
Detta così sembra facile…
Eh no. Ho fatto i miei errori e tutta la faticosa trafila che si fa in questi casi. Ho dovuto studiare e leggere molto. Come ho detto prima, abbiamo il mondo in tasca: se uno vuole imparare con internet arriva ovunque. Finché non ho sviluppato la mia idea di cucina, di piatti, una linea che piano piano è diventata riconoscibile. E finché non sono arrivati i primi riconoscimenti e le prime conferme, visto che l’Antica Osteria era già su tutte le guide.
E con i riconoscimenti arriva anche un’altra grande opportunità, esatto?
Sì, nel 2017/2018 (quindi 5-6 anni dopo aver iniziato la mia esperienza da cuoco) mi propongono di andare al ristorante della locanda Severino di Caggiano, che aveva perso lo chef e di conseguenza anche la Stella Michelin.
Quindi accetto e prendo in gestione il ristorante: apriamo nell’aprile 2018 in collaborazione con Tim Ricci, grandissimo pasticcere potentino, e a novembre otteniamo la Stella Michelin. In soli 7 mesi: una grandissima soddisfazione, oltre a ripagarci dei tantissimi sacrifici. Basta considerare che Caggiano è un piccolissimo paese sulle montagne del Vallo di Diano, non esattamente una grande meta turistica e con un bacino d’utenza ristretto che comporta tutta una serie di problematiche.
Perché nonostante il bel risultato ha deciso di tornare a Potenza?
Un insieme di circostanze, tra cui il Covid, che lì a Caggiano ha colpito duro (era zona rossa, c’erano i blocchi di cemento a impedire l’accesso al paese). E poi non vedevo più prospettive di crescita professionale per una questione legata ai numeri che non mi permetteva di avere le risorse (non solo economiche ma anche di entusiasmo) per sperimentare, fare ricerca eccetera. Insomma, avevo idee che non potevo realizzare. Di qui la decisione di lasciare e di tornare all’Osteria Marconi a Potenza.
Con la stessa formula?
In realtà no. Ho scelto una formula un po’ più easy, anche perché ora mi sento più maturo come cuoco: ho avuto le mie soddisfazioni, i miei riconoscimenti e non rincorro più il desiderio di affermazione. Ora facciamo la grande osteria, una cucina senza ricerca esasperata dei contrasti, delle tendenze, delle tecniche.
Ci concentriamo di più a soddisfare la nostra clientela, facendo una cucina importante dal punto di vista della materia prima (sulla quale non siamo mai scesi a compromessi), con grande attenzione al territorio ma senza farci soffocare per dare un motivo in più ai clienti (che per la maggior parte sono persone del luogo) di venire da noi. Sta pagando anche l’attenzione ai prezzi che non solo ci sta permettendo di mantenere i nostri numeri anche in questo momento difficile, ma ci ha fatto vincere l’oscar Qualità/Prezzo del Gambero Rosso.
Facendo un bilancio: aspetti positivi e negativi del mestiere dello chef.
Possiamo dire che quella del cuoco è una forma d’arte, un mestiere creativo e come tale permette una grande libertà di “espressione”. Poi come per qualsiasi mestiere fare un lavoro che piace è già il massimo della soddisfazione. Soprattutto per chi lavora in cucina, perché – e questo è sicuramente da mettere tra gli aspetti negativi – le tempistiche sono pesanti: in pratica vivi nel ristorante. Sono ore e ore sottratte a tutto il resto, famiglia compresa.
In un piccolo ristorante come il mio con 25 coperti (che possono diventare 35/40 nelle cerimonie) ti devi occupare di tutto: sono io che coordino; sono io che penso; sono io che sviluppo i piatti e i menù. E se sei anche proprietario come nel mio caso ti devi occupare anche della parte amministrativa che appesantisce decisamente il quadro. Se però vivi tutto questo solo come un aspetto negativo non puoi fare questo lavoro. Puoi farlo nelle grandi strutture, dove comunque c’è una turnazione, ma nella grande maggioranza dei ristoranti italiani, che sono mediamente piccoli, si lavora quando c’è da lavorare: non c’è orario che tenga. Si lavora fino alle 15 se i clienti vanno via alle 14,30, altrimenti si resta. Così come se un giorno ci sono poche persone si va via prima (anche se questo aspetto purtroppo è difficilmente inquadrabile dal punto di vista contrattuale). È un lavoro che funziona così, c’è poco da fare.
Questa forse è una cosa che andrebbe insegnata a scuola… In base alla sua esperienza, che consigli si sente di dare a chi esce da un alberghiero o da un corso professionale?
Devo dire che frequentare un alberghiero o un corso professionale non è assolutamente sufficiente per imparare il mestiere, è il minimo sindacale, il primissimo step. Va un po’ meglio per chi frequenta le scuole specialistiche di alta formazione come Alma, ma in ogni caso poi bisogna farsi le ossa, metterci del proprio. Finita la scuola forse non hai nemmeno iniziato a capire come si fa il mestiere, oltre al fatto che poi ogni ristorante ha le sue dinamiche.
Bisogna avere voglia di crescere, di sacrificarsi, in termini economici, logistici, di tempo. E serve anche predisposizione, bisogna dirlo: non è un lavoro che possono fare tutti, almeno ad un certo livello. Per diventare chef servono skill che non tutti hanno.
Per esempio?
Per esempio senso del comando e dell’organizzazione; personalità; autorevolezza, quella innata che deriva dal modo in cui ti comporti e quella acquisita con l’esperienza. Devi anche saper gestire lo stress e le emergenze del momento: questo è un lavoro spesso concentrato in lassi di tempo brevi, a meno che tu non abbia 30 persone in cucina e 20 coperti… Anche gestire quello che succede in cucina non è semplice.
Quando vedo un ragazzo incerto o indeciso nel muoversi, gli dico sempre che è fondamentale cercare di essere un passo avanti rispetto a quello che stai facendo; devi sapere cosa succede dopo e in qualche modo anticiparlo rimanendo concentrato.
È essenziale per garantire un servizio eccellente in tavola: devi rispettare standard qualitativi e tempistiche. A meno che uno non voglia friggere cotolette per il resto della vita: quello sì è un lavoro che possono fare tutti.
Aggiungo questo: il mio grande rammarico è di non aver girato, di non aver avuto l’opportunità di lavorare in altri ristoranti e magari all’estero (ho iniziato a fare il cuoco a 45 anni…). Quindi il consiglio ai giovani è quello di muoversi, di fare esperienze dove ne vale la pena, anche magari mettendoci soldi di tasca propria, perché questo fa la differenza.
Nella formazione del futuro chef qual è la competenza base che non può proprio mancare?
È importante sviluppare la dinamica del gusto di cui parlavo prima. Bisogna avere un palato superiore alla media se si vuole ambire a fare piatti di qualità superiore, a fare ricerca, a trovare combinazioni originali. E poi bisogna sviluppare le conoscenze tecniche che permettono di fare abbinamenti eccellenti.
Certo, ci può essere sempre il colpo di fortuna, ma insomma bisogna sperimentare, provare (anche quello che sembra più insensato) e sbagliare, fino a sviluppare una sorta di database sensoriale che ti permette già a priori di capire se due elementi messi insieme possono funzionare oppure no. E queste sono cose che si imparano studiando la tecnica (che non deve mai essere fine a se stessa) e non solo con la passione. Ricordando sempre che un buon piatto deve lasciare un ricordo, deve smuovere un’emozione e pazienza se non segue le tendenze del momento.
C’è uno chef di riferimento, una figura che ha influenzato il suo lavoro?
Sicuramente il lavoro fianco a fianco con Franco Rizzuti mi ha dato un imprinting determinante: anche se quando c’era lui io non cucinavo, i piatti li provavamo insieme, cercavamo insieme di migliorarli, andavamo insieme per ristoranti.
Poi, se dovessi dire un nome tra i grandi chef che apprezzo di più direi Niko Romito, che lavora molto sulla pulizia del sapore, piatti fatti con pochi ingredienti. Raggiunge delle profondità di gusto che secondo me sono fuori dal comune e che mi hanno sempre intrigato molto.
È un punto di riferimento anche per la filosofia, la cultura, il pensiero che c’è dietro la sua cucina. Andrei a cena da lui tutte le sere della mia vita e, sì, è da lui che farei uno stage per imparare davvero il mestiere di chef.