intervista a Giorgia Pavia di Soisy
Photo credit @guidomencari | 2017 © Guido Mencari www.gmencari.com
In Soisy i job title normalmente vengono messi nel cassetto (non si è startup per caso), ma per presentare Giorgia Pavia dobbiamo per forza fare ricorso alle etichette: per una delle aziende più innovative e originali nate recentemente in Italia, Giorgia è responsabile Marketing e Comunicazione.
«In Soisy – spiega – non ci sono titoli e manager. Il nostro lavoro ruota attorno a problemi, attività, dinamiche, progetti che richiedono il nostro impegno in quel dato momento e ai quali possiamo dare un contributo a prescindere dalla nostra competenza principale. Poi sì, il mio è un background in web marketing e comunicazione, sia a livello universitario che lavorativo – prima di entrare in Soisy Giorgia ha lavorato in Johnson&Johnson Medical e in BNL, ndr – e di questo continuo ad occuparmi anche in Soisy».
Soisy è nata nel 2016 da un’idea di Pietro Cesati, un lungo background professionale all’interno dei più importanti istituti bancari italiani, con particolare esperienza nel risk management. Soisy è un istituto di pagamento a tutti gli effetti (vigilato e autorizzato da Banca d’Italia), ma non è una banca: è una piattaforma di prestito tra privati che permette a clienti investitori di investire prestando denaro con tassi di interesse tra il 4 e l’8%; e i loro investimenti vanno a finanziare clienti che stanno facendo acquisti su e-commerce convenzionati con Soisy e decidono di pagare a rate, così da dilazionare il pagamento; per cui Soisy oltre che strumento di investimento è anche uno strumento di pagamento rateale a tutti gli effetti per gli e-commerce che vogliano aumentare le conversioni, da integrare nel proprio checkout oltre a carte, bonifico o all’ormai immancabile Paypal.
Ma la missione di Soisy è ben più ambiziosa: dimostrare che, attraverso il modello del prestito tra persone, ci può essere una finanza “buona”, che non provoca (o riduce di molto) paurose crisi globali come quella che abbiamo conosciuto nel 2008 e che ha messo in ginocchio intere economie (il loro fondatore ci ha scritto anche un libro su questo, se vi interessa il tema); e buona nel senso di servizi finanziari smart, veloci, accessibili, di buona qualità insomma.
E da tempi non sospetti, ben prima che la pandemia lo imponesse a tutti, Soisy ha fatto dello smart working il suo metodo di lavoro: è la sua cifra caratteristica, già dalla sua nascita.
Cosa vuol dire in concreto?
«In concreto – spiega Giorgia Pavia – siamo 33 persone in 27 città diverse, senza un ufficio vero e proprio. Alla fine il concetto di ufficio o stanza dove fare una riunione è superato, oltre che più costoso: basta aprire un Google Hangout e si è tutti nella stessa stanza virtuale a ragionare su un problema, senza doversi trasferire a Milano se vivi al mare e non vuoi rinunciarci, come fu per il primo sviluppatore che assumemmo. Significa che hai un pool di talenti cui attingere illimitato, ma soprattutto che se le persone sono a casa e non le costringi allo stress di spostamenti e mezzi pubblici, trasferimenti, trasferte e lontananza da famiglia e affetti, sono più felici e produttive.
Nel nostro caso, poi, abbiamo un budget per crearci una postazione a casa, che sia “isolata” a livello audio dal resto della casa (bastano delle buone cuffie) e un budget che possiamo usare per affittare postazioni in aree di smartworking (quando si può, ovviamente), se vogliamo alternare la casa a spazi condivisi e di networking. Ad esempio, le persone del team che gravitano su Milano spesso si trovano a Le Village, un hub per startup dove affittiamo postazioni ogni volta che decidiamo di andare.
Per ovviare alla distanza e allo “straniamento” del remote-first, organizziamo dei retreat una volta l’anno (che abbiamo rinominato funtreat, in cui non lavoriamo ma privilegiamo l’aspetto del divertimento) e ci ritroviamo per trascorrere tempo insieme come team, soprattutto, e facciamo anche un paio di retreat di lavoro dal vivo a Milano. Questo pandemie permettendo, perché ormai non ci vediamo tutti insieme dall’ultima sciata insieme a febbraio 2020 e stiamo ragionando su come ovviare per provare a creare occasioni virtuali non lavorative, che ci aiutino a stare insieme anche per aspetti non prettamente di business. Infine, per lavorare bene da remoto, servono disciplina e focus, ma anche il tempo per riposare e divertirsi.
Abbiamo canali slack lavorativi, ovviamente, ma anche canali dedicati a #giardinaggio o #musica, dove condividiamo quel che ci fa stare bene fuori dal lavoro. E anche il canale #cazzeggio, (faccio outing), perché serve anche del sano cazzeggio e divertirsi per lavorare bene. Così come serve smettere di lavorare a un certo punto, per riprendere più carichi il giorno dopo: ecco perché non troverai quasi mai una riunione nei nostri calendari oltre le 17, o nelle pause pranzo».
Sul vostro sito leggo parole come fiducia, essere manager di se stessi: in base alla sua esperienza, che caratteristiche personali bisogna avere per trovarsi bene a lavorare da remoto? Che consigli si sente di dare?
«Intanto voglio dire che lavorare in una startup è una scuola di vita e consiglio a tutti di fare questa esperienza, perché puoi contribuire attivamente e misurare subito l’impatto delle cose che fai. Ma con un’avvertenza: puoi lavorare in una realtà del genere se sei una persona dotata di autonomia: non c’è nessuno che ti dice cosa devi fare in quel momento; sei tu che devi sapere dove concentrare gli sforzi. Altrettanto fondamentale è la capacità di confrontarsi e negoziare con gli altri: proprio perchè non hai un capo che ti dice cosa fare, sta a te negoziare con altre persone che quella sia l’attività più impattante e importante in quel momento, e portarli a bordo se per quell’attività hai bisogno anche di altre competenze (dev, prodotto, legali etc).
Insomma, tutto ruota attorno alla flessibilità e alla capacità di rispondere ad un problema e trovare la soluzione, a prescindere dalla singola competenza. Ciò implica responsabilità e capacità di capire di cosa ha bisogno l’azienda in quel momento: il focus sono sempre gli obiettivi e i relativi impatti e valore che vogliamo creare per i clienti. Obiettivi che però non sono calati dall’alto ma siamo noi stessi a decidere, negoziandoli insieme.
E poi, day by day, devi capire quali sono le azioni da compiere che ti avvicinano di più o più velocemente all’obiettivo prefissato. Va da sé che la paura di provare, di sbagliare, di fallire non fanno parte del bagaglio dei Soisyani. Magari all’inizio: io stessa che venivo dalla banca tradizionale ne avevo di timori, ma ben presto si capisce che non c’è giudizio nell’errore, e che lo sbaglio altro non è che apprendimento, un modo per avvicinarci alla soluzione migliore, scartando le soluzioni alternative che non funzionano.
Qual è l’errore commesso più spesso da parte di chi si candida a lavorare con voi?
«Intanto devo dire che i curriculum che riceviamo sono generalmente di alto livello: c’è una sorta di auto selezione all’ingresso e questo vuol dire che le persone hanno compreso i nostri valori, sono motivati e hanno veramente deciso di condividere la nostra filosofia.
Riceviamo candidature da parte di persone che dopo aver sperimentato il nostro servizio, ci inviano il loro cv per auto-candidarsi, del tipo: “Sono uno sviluppatore e da poco anche un vostro investitore, ho testato personalmente il prodotto e investito alcuni miei risparmi e secondo me la piattaforma potrebbe essere migliorata così”. Poi persone che si appassionano al modello del P2P o a come lavoriamo e ci mandano delle lettere motivazionali davvero sentite.
Anche se non abbiamo posizioni aperte, ci prendiamo sempre tempo per ascoltarle, conoscerle e chiedergli se possiamo tenerle a disposizione in caso aprissimo posizioni in linea coi loro profili. Naturalmente, arrivano anche curriculum totalmente fuori target, di persone che non hanno nemmeno letto l’annuncio e non sanno chi siamo o come lavoriamo. Ad esempio, non allegano la lettera di presentazione, che invece per noi è importantissima: è da lì che capiamo la persona, come si presenta, che valori ha. Se non la mandi il messaggio implicito che ricevo è in primis che non leggi attentamente l’annuncio, e poi che che per te questo è un annuncio come un altro e non ho elementi per convincermi che tu puoi fare la differenza per noi, mi manca proprio un pezzo. Insomma, una gran prima scrematura la fa proprio la cover letter».
Qual è, invece, la caratteristica che vi fa dire “ecco la persona che cercavo!”?
«Potrei dire: la passione, che è un termine ormai molto abusato, ma è una scintilla che per me non può mancare. Io raccomando alle persone di avere ben chiaro cosa vogliono, cosa gli piace fare e semplicemente di raccontarcelo, perché se ti piace quel che fai ti viene bene e ti brillano gli occhi mentre lo racconti.
Questo a me colpisce sempre. Poi sicuramente se mi dimostri che ha voglia di imparare, punti in più: questa è una caratteristica fondamentale, a maggior ragione oggi, nessun mestiere lo si può considerare “imparato” per sempre, soprattutto nel mercato digitale e in quello, in continua evoluzione, dei servizi finanziari. Ecco: le persone che vogliono crescere e che non si sentono mai arrivate sono quelle che possono contribuire a creare aziende che crescono e che possono prosperare a lungo termine. È lo spirito e la visione di chi vuole che l’azienda sia ancora presente non tra tre anni ma tra cento, e io vorrei quelle persone per Soisy».
E come si acquisiscono le caratteristiche giuste?
«Se ti ascolti e segui cosa ti piace fare, riesci molto meglio nel tuo lavoro a prescindere dal tuo background originario, impari molte più cose e migliori le tue competenze e le tue skill personali costantemente. Questa dinamica per noi è molto importante, tanto che ciascuno di noi ha un budget annuo di mille euro da spendere in formazione (in libri, convegni, corsi che ognuno può scegliere), oltre alla possibilità di dedicare mezza giornata alla settimana alla propria formazione.
In questo modo le persone si sentono motivate ad assecondare ciò che gli piace fare. E se le persone possono scegliere quel che gli piace fare otterranno risultati impressionanti, e l’azienda altrettanto. Di solito nei colloqui questa attitudine la senti a pelle. Per quanto riguarda me, la domanda alla quale cerco di rispondere quando faccio un colloquio, è: mi piacerebbe lavorare con questa persona? Che valori mi trasmette? Ha una sana curiosità mista a voglia di imparare sempre, da tutte le persone di un’azienda e non solo da libri? Ci deve essere un feeling iniziale per evitare di perdere tempo entrambi, come in tutte le relazioni d’altronde».
Perché in Soisy non esiste la figura dell’HR?
«Perché noi lavoriamo, come dicevo prima, attorno ad un progetto, ad un obiettivo da raggiungere o ad un problema da risolvere. Se abbiamo un obiettivo di marketing e pensiamo che per arrivarci più in fretta, oltre a campagne digitali o di public relation, abbiamo bisogno di una persona, apriamo una posizione e chi lavora a quell’obiettivo si occuperà anche di hr e selezione. Quindi, di volta in volta, tutti noi siamo HR, tutti noi facciamo colloqui. E il primo step è quello che chiamiamo “fit culturale” per capire se la personalità del candidato, le sue passioni, il suo modo di vedere il mondo vanno a braccetto coi nostri; se oltre le competenze specifiche ha la personalità e l’attitudine giusta per come organizziamo il lavoro noi».